Poiché si parla spesso dell’esistenza della Città di Benaco, ritengo opportuno trascrivere il testo di quanto pubblicò in merito lo storico locale Avv. Donato Fossati nel Vol.2° di “Storie e Leggende” nel 1944 a pag.46:
“L’esistenza e la comparsa della città di Benàco sono una grossolana leggenda che può essere sfatata anche alla vista superficiale della configurazione geologica della Riviera bresciana del Garda, ma per i paesi lontani e per le genti straniere possono passare per verità, poiché parecchi scrittori da secoli le hanno divulgate come tali, ripetendo una tradizione spuntata nel Medio Evo, cioè tra l’ignoranza, la superstizione e la facile credulità.
E’ vero che tra due centinaia di scrittori che parlano di cose benacensi e che toccano l’argomento cento e cinquanta relegano tra le fiabe la vicenda della città distrutta e sono questi gli storici critici più riputati, mentre altri ne dubitano, ma una trentina ammettono senz’altro il fatto e tra questi sono i bresciani, gli storici e cronisti locali, i più autorevoli e degni di fede agli occhi di molti, perché oriundi della regione, a conoscenza della località, in possesso di documenti, si suppone, e così si è potuto mantener viva una tradizione priva di fondamento, sorretta solo da cecità e forse anche da un falso spirito di amore al natìo loco, abbellito ed esaltato dalla fantasia dei poeti.
E’ vero ancora che da oltre cinquant’anni si è messa in chiaro l’origine della leggenda e dimostrato con prove esaurienti che al posto della sognata città vi fu una grandiosa e opulente villa romana, caduta in rovina per devastazioni e rapine all’epoca delle invasioni barbariche, ma tutto ciò non fu sufficiente a spegnere la fiaba e la fallace tradizione, poiché ancora le si sentono qua e là ripetere fuori della nostra plaga e accennare nelle guide illustrative del nostro lago.
Il fiume Toscolano, che nasce in valle di Vestino, in tempi antidiluviani sfociava al lago scendendo da una barriera di colline soprastanti, emissario di un bacino lacustre che occupava la valletta di S.Martino di Tours e ciò risponde a una realtà facilmente tuttora rilevabile; nella barriera si sarebbe improvvisamente determinata una frattura o spaccatura o per terremoto o per la spinta del bacino e apertasi una voragine, la massa dell’acqua e della materia precipitando avrebbe sommerso la sottostante città di Benàco posta dove ora vi è il paese di Toscolano. La catastrofe orrenda sarebbe avvenuta secondo alcuni dopo gli Etruschi, secondo altri imperante il divo Augusto, o l’imperatore Gondiano e secondo il nostro cronista frate Andrea da Toscolano del secolo XVII prima dell’incarnazione del figliuolo di Dio.
Questa la leggenda.
Il fatto della fenditura del monte è certamente accaduto, poiché il fiume scorre ora ai piedi della forra e al posto del laghetto vi è la valle delle cartiere, ma invece di immaginare terremoti o cataclismi in epoca a noi relativamente vicina, dei quali naturalmente non si ha memoria, si deve pensare al lento lavorìo e all’erosione delle acque iniziati e compiuti in tempi talmente remoti, da ritenere che ancora non fosse allora comparso l’uomo primitivo delle caverne, oppure che ancora non si fosse ritirato il vasto ghiacciaio che copriva il lago. A formare poi il delta o promontorio, detto da noi Capra (campora) quale ora si vede e della stessa superficie a un di presso dell’età latina sono occorsi migliaia di secoli. Benàco è sì esistito, ma fu un vico, un paese etrusco di una certa importanza, perché allo sbocco della vallata del fiume Toscolano e perché il decorso delle acque consentiva la lavorazione del ferro e la confezione di strumenti agricoli, più tardi fu un pago romano salito in fama quando nel primo secolo vi prese stanza la famiglia dei Nonii-Arrii emigrata da Roma, la quale mutò il nome del paese in quello di Toscolano in ricordo e affetto dei colli toscolani popolati di ville del patriziato dell’Urbe. Edificò una villa monumentale colla fronte sul lago di 500 metri a partire dal
porto fino all’attuale poligono del tiro a segno, circondata da giardini, ippodromi, uccelliere, palestre alla greca, una costruzione di vastità e fasto babilonesi per la selva delle torri, pei templi, li arditi manufatti, i mausolei, i portici e i criptoportici, laboratori e rustici; e qui ebbe dimora fino alla sua estinzione caduta nelIV secolo. Trapassata tale proprietà nel demanio dei barbari dai Goti ai Longobardi e ai Franchi, nelle numerose irruzioni venne spogliata, devastata e diroccata, rimanendo sparsi sulle rive e nelle aree adiacenti e poi sepolti nei campi e nel lago avanzi preziosi di colonne, marmi, lapidi, busti, statue e ruderi d’ogni specie. I Vescovi bresciani, eredi del demanio Franco, trassero materiali per la costruzione del castello cinto da bastione, ora
casa colonica. Berardo Maggi edificò il palazzo vescovile adiacente e parecchi privati impiegarono nelle loro case molte di queste relique; più tardi ricerche praticate da studiosi e appassionati misero in luce altri avanzi che andarono ad arricchire il Museo di Verona, diversi palazzi della città stessa e parecchie case di Toscolano, dalle quali si rifornirono gli antiquari.
Sono persuaso che ancora oggi profondi scavi operati nei campi adiacenti alla prebenda e allo
Stabilimento Donzelli darebbero rilevanti e insperati risultati
Omissis …………..
Come è nata la leggenda della città di Benàco?
I naviganti che nel Medio Evo approdavano al porto di Toscolano per ragioni di commercio e i pellegrini che affluivano periodicamente al Santuario della Madonna di Benaco, situato di fianco e celebre in quei secoli, dovevano transitare vicino alla riva coperta di muraglioni diroccati e vedere tra la meraviglia l’immensa mole di rovine sparse lungo le aree adiacenti, tra le quali colonne, statue spezzate, marmi d’ogni colore, intonachi dipinti e lapidi scolpite di nomi e di abbreviature per essi indecifrabili ad eccezione della parola Benacenses posta in calce alle epigrafi; nasceva tosto in loro la persuasione che qui fosse esistita una città denominata Benàco distrutta dal terremoto o dalla improvvisa irruzione del fiume, che addensando un’immensa congerie di materiali alla foce e alle sponde avea formato poi l’ampio delta o promontorio. E s’accendevano e volavano sbrigliate le fantasie in epoca di così sordida ignoranza a immaginare grandiosi edifici, torri e templi, teatri e anfiteatri, terme e portici e palazzi, ornamento e magnificenza della scomparsa città. Così dalla leggenda si formò una tradizione, che i nostri storici locali e cronisti accettarono senz’altro, senza ricerche e senza nulla approfondire, senza documenti né prove, né indizi; più tardi storici eruditi di ogni paese, tra i quali il dottissimo marchese Maffei e il nostro Ottavio Rossi ed in seguito il Brunati e l’Odorici visitarono e studiarono i ruderi benacensi comprendendo tosto come la leggenda fosse un sogno e immaginando che in Benàco fosse esistita una villa romana di proprietà di qualche ricca famiglia o forse anche di qualche imperatore.
Ormai è certo ed è noto che la villa monumentale e sfarzosa fu edificata e abitata per tre secoli dalla storica famiglia dei Nonii-Arrii, imparentata colla Macrina del finitimo Maderno e altresì colla schiatta degli Antonini, restauratori dell’autorità imperiale e la celebre compagine famigliare si elevò nel mondo romano e bresciano non soltanto per le immense ricchezze e le alte aderenze, ma anche per rettitudine di vita, nobiltà di opere e per magistrature onestamente occupate.
Il nome Benàco è riapparso nel marzo del 1797 e fu dato dal Sovrano popolo bresciano al cantone di Salò, che ebbe la durata di otto mesi e fu incorporato nel Dipartimento del Mella dalla repubblica Cisalpina. Collo stesso nome storico e fatidico sarebbe stata ribattezzata la nostra città (Salò) pochi anni or sono, allorquando il Poeta del Vittoriale vagheggò di riunire tutte le sponde del lago in una nuova provincia con a capo Salò fusa col finitimo Gardone. E il disegno si sarebbe tradotto in realtà, poiché nelle sfere dirigenti il prestigio e l’autorità del Comandante erano indiscussi, la sua parola ascoltata e perché chi più in alto lo teneva quale fedele amico e campione di patriottismo desiderava di accontentarlo. Infatti nel gennaio 1935 un progetto di legge in argomento veniva presentato in parlamento. L’avvenire della nostra città (sempre Salò) sarebbe stato assicurato quale centro politico amministrativo, fervido di vita culturale, artistica e turistica e il lago, che avrebbe visto affluire genti di ogni contrada attratte non soltanto dalla mitezza del clima e dal fascino del paesaggio, sarebbe stato davvero il lago degli italiani. Ma il poeta non fu compreso né assecondato e il progetto di legge fu lasciato cadere di fronte al tentennare e all’inerzia dei comuni interessati, interpretata come ostilità. Di questo deprecato fallimento la responsabilità non ricade sui miei concittadini (i salodiani per intenderci), che non furono interpellati, né ebbero la possibilità di far sentire la loro voce, ma su coloro che in quel turno di tempo si ritennero gli autorevoli rappresentanti di Salò e di Gardone, i quali anziché spingere lo sguardo nel futuro, si cristallizzarono nella nostalgia del passato e invece di predisporre sollecitamente e in concordia il piano della nuova città persero il tempo tra diffidenze e gelosie, tra accademie e logomachie.
Così il dado tratto dalla mano amica e protettrice di Gabriele D’Annunzio e non afferrato a suo tempo si è sepolto per sempre: le generazioni che ci seguiranno potranno per conforto e orgoglio vantare, come noi facciamo, il passato illustre della nostra città nel suo ciclo storico tramontato, ma senza speranze di ritorni e avranno rampogne e condanna verso coloro che per insipienza ne impedirono la risurrezione”.
Le
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.