Nei secoli scorsi l’economia locale, oltre che sulla produzione di carta, si reggeva anche sull’agricoltura ed in particolare sulla coltivazione dei limoni e dell’olivo. Quella dei limoni, oggi, è completamente abbandonata, mentre l’olivo anche se drasticamente ridotto nel numero, è ancora mantenuto, ma non è più la fonte principale di reddito.
Nel
‘800 Toscolano e Maderno, nella coltivazione dei limoni, si classificavano al
2° posto per importanza dopo Gargnano e addirittura prima di Limone.
Secondo
Giuseppe Solitro le prime coltivazioni di limoni furono iniziate, nel XIV
secolo, dai Padri Serviti di Maderno che avevano il loro convento sia nel
palazzo divenuto poi dei Bulgheroni che nella soprastante casa in Via S.Pietro,
chiamata poi Villa Caprera, e dai Frati di S.Francesco che avevano un Monastero
a Gargnano.
Lo
storico veneziano Marin Sanuto nel suo “Itinerario per la terraferma
veneziana”, nel 1483, passando da Maderno e vedendo queste particolari
coltivazioni scriveva:… “Qui è zardini de
zedri, naranzari, ed pomi damo infiniti…”. Così anche Silvan Cattaneo nel
descrivere il suo viaggio sul lago nel 1550, dopo aver ammirato le bellezze
artistiche di Maderno, affermava:…”abitazioni
molto belle ed ornate con giardini amenissimi di cedri, aranzi e limoni, da
fontane tutti irrigati..”
Quest’attività
rappresentava per centinaia di persone l’unica possibilità di lavoro perché,
oltre ai “giardinieri” in altre parole coloro che gestivano le limonaie,
trovavano occupazione anche muratori, fabbri, contadini e barcaioli. Questi
ultimi provvedevano al trasporto dei frutti, ben imballati nelle casse, per
mezzo delle barche sia verso Torbole sia verso Desenzano per essere poi
esportati all’estero. Anche donne e bambini partecipavano ai lavori con il
preciso compito, dopo la “spiccata” (cioè la raccolta dei frutti) di sceglierli
suddividendoli secondo la grandezza. Per far questo lavoro facevano passare i
limoni attraverso anelli di dimensioni diverse e, a secondo del diametro, ai
frutti veniva attribuito un diverso valore di mercato.
Non
bisogna dimenticare che la coltivazione d’agrumi sul lago di Garda si trovava
nella zona più a nord del mondo perciò, nonostante il clima mite della riviera,
la pianta era sempre esposta ad improvvise diminuzioni di temperatura che,
sotto lo zero, poteva danneggiare anche in modo irreparabile la pianta. Si
giustifica quindi il motivo per cui queste piante necessitano di particolari
cure nella stagione invernale.
In
genere le limonaie erano costruite a ridosso della montagna, a protezione del
vento che la sera scende, ed erano tutte rivolte, per ovvie ragioni, verso
sud-est. Erano, e lo sono ancora quelle pochissime rimaste, composte da tre
muraglie. Una dietro, e due ai lati. Sulla parte anteriore erano posti, ben
distanziati, numerosi pilastri che avevano lo scopo di sostenere il tetto di
legno, messo a spiovente per ricevere maggiore luce dall’esterno.
La
coltura più intensa degli agrumi sul Garda era quella sulla riva occidentale,
da Limone a Maderno, la parte più splendida della Riviera, quella che
anticamente fu detta “Riviera in Riviera”, in minori proporzioni si trovava
sulla sponda orientale da Castelletto a Garda. Se si esamina la situazione
della Riviera Bresciana nel 1879, che in quel tempo contava complessivamente
30.000 campi di limoni (i rivieraschi chiamavano “campo” lo spazio di terra
compreso fra i 4 pilastri e cioè due della prima fila e i due corrispondenti
della seconda, spazio che era di circa 20 metri quadrati),
si rileva che 21.000 si trovavano a Gargnano, 5.250 a Maderno e Toscolano
e 3.750 a
Limone. Ogni campo conteneva una o due piante di limoni e, qualche volta, anche
una di cedro. Poiché ogni campo forniva in media mille limoni all’anno, come
sostiene Donato Fossati, si può facilmente desumere che l’entità della
produzione annua della riviera superava i cinque milioni, quantità non certo
trascurabile agli effetti dell’economia di quell’epoca.
Questa
coltivazione richiedeva particolari cure da parte dei “giardinieri”
soprattutto all’inizio dell’inverno.
Infatti, si doveva provvedere alla copertura della serra con assi sul tetto e
con vetrate nella parte anteriore. Il tutto era custodito nell’apposito “casèl,
una piccola casetta attigua alla limonaia. Durante l’anno le piante richiedevano
di una frequente vangatura e potatura, oltre alla concimazione ed
all’irrigazione. Quest’ultima avveniva a mezzo di canalette in pietra poste
all’interno della serra le quali conducevano l’acqua necessaria alle singole
piante. Per avere sempre l’acqua, anche durante la persistente siccità, erano
costruite, a monte, capaci vasche che raccoglievano l’acqua piovana o quella di
qualche piccola sorgente vicina, come nel caso della vasca esistente fino ad
alcune decine d’anni fa in località S.Pietro, che serviva le limonaie della
villa Bulgheroni..
Quando il
freddo s’intensificava le persone addette badavano a tappare ogni fessura con
fieno o paglia, operazione che era chiamata “stüpinàr”a giustificare il locale proverbio: “A Santa Caterina (25 Novembre) stüpina,
stüpina”. E se il freddo si faceva più intenso, all’interno della limonaia
si accendevano dei fuochi.
Una prima battuta d’arresto nella coltivazione di questi
agrumi avvenne nel 1855 con la comparsa della “gommosi” una malattia che
colpiva le piante fino a distruggerle. Fu un vero disastro!. Nel 1873
l’agronomo locale Francesco Elena, uno dei tanti proprietari danneggiati da
questa malattia poté constatare che la malattia non colpiva gli aranci amari.
Ebbe quindi la brillante intuizione d’innestare i limoni con gli aranci amari.
Gli altri produttori seguirono il suo esempio ed i risultati non mancarono.
Ma nel giro di
mezzo secolo tanti altri fattori contribuirono al suo abbandono.Per prima cosa
furono imposti pesanti dazi alle frontiere per la sua esportazione, inoltre lo
sviluppo dei trasporti facilitò le importazioni del prodotto dalle zone
meridionali ed infine il costo della manodopera cominciò a lievitare. Per cui
il prezzo non fu più concorrenziale, e le coltivazioni furono letteralmente
abbandonate così come la cura delle limonaie. Di questo paesaggio ricco di
pilastri e di vetrate, rimangono ora poche tracce.
A
Maderno le ultime limonaie ancora in attività nei primi decenni del ‘900 furono
quelle del “Serraglio” e della famiglia Elena. Entrambe sono state recentemente
ristrutturate. La prima solo esteriormente perché non è più predisposta per la
coltivazione dei limoni, mentre la seconda (che si trova di fianco al
supermercato nel Piazzale S. D’Acquisto) e ora di proprietà comunale –
sistemata recentemente a cura della Comunità Alto Garda Bresciano – non
potrebbe, in caso di un inverno particolarmente freddo, riparare le piccole
piante messe a dimora per mancanza dei dovuti ripari (tetto e vetrate).
Ora
dalle crepe dei muri delle limonaie abbandonate crescono le piante dei capperi
che furono citate già nel 1897 dal Solitro nel suo “Benaco”. Contrariamente ai
limoni queste piante sopportano bene il freddo, per questo possono stare
all’aria aperta senza alcun danno.
In
primavera, per l’uso alimentare, si tolgono i boccioli, molto prima che
diventino fiori. Anzi più sono piccoli e chiusi, più sono saporiti. La raccolta
avviene due volte la settimana appunto per evitare quest’inconveniente. Poi il
prodotto è conservato in vasi sotto sale o sott’aceto ed è poi usato in cucina
per preparare salse o per condire vivande.
Data
la limitata produzione non ritengo che in passato il cappero abbia mai avuto un
peso rilevante sull’economia locale. Tanto meno lo può avere ora in quanto è
coltivato, in genere, per uso personale.
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