L’antica fiera che si svolge a Toscolano il 29 giugno, in occasione della festa dei SS.Pietro e
Paolo ai quali è dedicata l’attuale chiesa parrocchiale, affonda le sue radici in tempi lontanissimi.
Con l’aiuto delle notizie che Donato Fossati ha pubblicato nel suo “Benacum – Storia di
Toscolano” possiamo ricostruire, sommariamente, le origini di questa fiera che, anticamente, si
svolgeva in onore di S.Domenico l’8 agosto.
Dobbiamo ricordare che intorno 1° secolo d.C. quando fu eretta la villa romana, nel recinto
della stessa, fu costruito anche un tempio dedicato a Bacco, pressappoco dove si trova ora la chiesa.
Nei secoli successivi, quando gli illustri abitanti abbandonarono tale dimora e iniziavano le
devastazioni, tale tempio fu ampliato con i ruderi della stessa villa e trasformato nella primitiva
chiesa di S.Andrea, più tardi dedicata a S.Domenico. Nel 1500 su stimolo e suggerimento di
S.Carlo Borromeo, questa chiesa, inadatta alle nuove esigenze, fu abbattuta ed il 16 marzo 1584 fu
posta la prima pietra di quell’attuale che fu però dedicata ai SS.Pietro e Paolo e nella quale, il
secolo successivo, lasciò la sua preziosa impronta il pittore veneziano Andrea Celesti.
Anche nella chiesetta di S,Lucia alla “Religione” dei frati dell’Abbazia domenicana, che svolsero la loro attività dal 13° al 18° secolo, esisteva un altare dedicato a S.Domenico per cui il convento fu denominato “Religione di S.Domenico” in onore del fondatore dell’ordine dei domenicani.
Il Fossati ci ricorda nel suo libro che in occasione della ricorrenza di S.Domenico era
consuetudine che il Parroco di Toscolano, insieme a tutti i sacerdoti dello stesso comune, si recasse
alla “Religione” per celebrare la S.Messa in onore del Santo. Successivamente era servito loro dai
frati un lauto pranzo, mentre nei dintorni si svolgeva una fiera frequentata dalla popolazione di tutta
la riviera. Inoltre ricorda anche che quando l’attività riguardante l’allevamento dei bachi da seta era
esteso in numerose famiglie che tenevano i fornelli per filare almeno i cascami, questi si vendevano
alla locale fiera di S.Pietro.
Per cui è da ritenere che l’attuale fiera che si svolge a Toscolano da almeno due secoli in
occasione della festa dei SS.Pietro e Paolo, non sia altro che la continuazione di quella che
anticamente si svolgeva nella ricorrenza di S.Domenico e che abbia solo cambiato nome e data per
il fatto che l’attuale chiesa fu dedicata ad altri Santi.
Andrea De Rossi
Andrea De Rossi
domenica 22 settembre 2013
CURIOSA STORIA DELLA BEFFA DEL GOBBO
Riporto una curiosa e stravagante storia che lo storico Avv. Donato Fossati ha, fra le altre, pubblicato nel vol.1 “Storie e leggende” edito nel 1943.
Si tratta di un fatto che avviene verso la fine dell’Ottocento quando la Valle delle Cartiere era animata ancora di una ventina di opifici tra fabbriche di carta, macine d’oliva e fucine per la lavorazione del ferro.
L’autore di questa strana storia ricorda che gli operi addetti alle piccole fabbriche di carta a mano erano chiamati cartèr e lavoravano dalle due del mattino fino a mezzogiorno per una tradizione inspiegabile che non fu mai interrotta e giravano poi sino a sera per le osterie tra i giuochi di bocce e alla mora. Erano abili ed intraprendenti e godevano di alti salari e, quelli che dovevano dormire negli opifici per sorvegliare lalavorazione della pasta di stracci e farne la
preparazione, godevano soprassoldi in natura e denaro; le donne di ogni età lavoravano di giorno
dalle otto alle quattro con l’intervallo di un’ora d’inverno e dalle sette alle diciotto, con due ore di riposo, l’estate.
Negli ultimi anni di vita dei vecchi folli (si chiamavano così in dialetto le piccole cartiere) lo stesso Fossati, figlio di imprenditori della carta, per impadronirsi praticamente del mestiere, faceva un volontario tirocinio nei vari reparti degli uomini e più volentieri in quello delle donne, tra le quali, come afferma lo stesso, vi erano delle fiorenti ragazze brune o bionde.
Frequentando questo ambiente sentì più volte nominare un certo Mercadoni famoso per la sua lingua pronta e tagliente e per le burle che faceva al prossimo, nelle quali era maestro; era affetto da gibbosità (aveva la gobba), ma di viso piacente e aperto e come tutti i suoi simili aveva un vivo trasporto per le femmine le quali non si infastidivano di questo, ma lo contraccambiavano di risate e di scherni, facendo allusione alla sua deformità. Il gobbo masticava amaro e volle trarre vendetta contro l’elemento femminile, che lo pungeva toccandolo nel vivo.
In quel tempo era consuetudine a Toscolano che al sabato intervenisse diverse volte un frate del convento di Barbarano per predicare nella successiva domenica e anche per confessare la sera dopo il rosario e alla mattina dopo l’avemaria; il suo confessionale era preferito dalle donne e perché il cappuccino naturalmente non era del paese e perché indulgente o, come si dice, di manica larga; un sabato sera, travestito da francescano e senza destar sospetti, il Mercandoni siedè nel confessionale, che come è noto è mascherato da una tendina sulla porticella e nel suo seno o sulla sua finta barba dietro la grata vuotò il sacco dei peccati una ventina di donne di nulla fatte accorte, anzi contente per la paterna bontà, il facile perdono e le moderate pene per la remissione da parte del confessore. La mattina dopo, all’uscita della gente dalla messa solenne cantata, postosi il gobbo nella piazza adiacente alla chiesa, si mise ad apostrofare ad alta voce a una a una le sue penitenti, sciorinando e rinfacciando i peccati confessati, le civetterie e le marachelle delle ragazze e gli strappi alla fede coniugale delle maritate, tutto ciò in mezzo all’ilarità generale, alle grida e alle proteste delle accusate circuite da un assembramento di uomini, di donne tosto accorse al baccano.
Ne nacque un putiferio e il paese fu sottosopra; amanti delusi che oltraggiavano le fidanzate, mariti furibondi contro le mogli,queste scalmanate e scarmigliate a piangere di rabbia e a lanciare improperi contro i consorti, messe a soqquadro le case, tantochè dovette intervenire la gendarmeria a sedare i tumulti, a calmare gli animi esasperati e a procedere a una meticolosa inchiesta.
Il gobbo nel frattempo presentendo la tempesta aveva preso il largo, ma fu ricercato, inseguito, arrestato e condannato per sacrilegio; tuttavia, scontata la leggera pena, dietro invito del proprietario rioccupò il suo posto alla cartiera da abile e laborioso operaio quale era.
Nelle famiglie, ben presto, ricomposta la tranquillità e la concordia, fece ritorno il ciel sereno; gli uomini nella
loro proverbiale bontà o dabenaggine finirono coll’arrendersi ai dinieghi e alle proteste delle donne, esperte in simulazione per istinto femminile e prodighe di lacrime nei momenti difficili; tutte le accuse caddero annientate perché ritenute invenzioni e menzogne del Mercandoni.
Questi visse di poi sempre allegro, faceto e donnaiuolo non senza successi, perché oltre la garanzia e il prestigio della sua promettente virilità piena di audacia, incuteva rispetto e timore quale depositario degli intimi segreti carpiti; infatti quando le donne lo incontravano abbassavano gli occhi o sorridevano di sottecchi, mentre egli ne ammiccava uno solo.
Se questo fatto fosse realmente avvenuto, sarebbe stato molto grave, ma ritengo trattarsi di una leggenda, anche perché dalla metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri fra gli abitanti di Maderno e Toscolano non risulta alcuno che portasse questo cognome.
Andrea De Rossi
Si tratta di un fatto che avviene verso la fine dell’Ottocento quando la Valle delle Cartiere era animata ancora di una ventina di opifici tra fabbriche di carta, macine d’oliva e fucine per la lavorazione del ferro.
L’autore di questa strana storia ricorda che gli operi addetti alle piccole fabbriche di carta a mano erano chiamati cartèr e lavoravano dalle due del mattino fino a mezzogiorno per una tradizione inspiegabile che non fu mai interrotta e giravano poi sino a sera per le osterie tra i giuochi di bocce e alla mora. Erano abili ed intraprendenti e godevano di alti salari e, quelli che dovevano dormire negli opifici per sorvegliare lalavorazione della pasta di stracci e farne la
preparazione, godevano soprassoldi in natura e denaro; le donne di ogni età lavoravano di giorno
dalle otto alle quattro con l’intervallo di un’ora d’inverno e dalle sette alle diciotto, con due ore di riposo, l’estate.
Negli ultimi anni di vita dei vecchi folli (si chiamavano così in dialetto le piccole cartiere) lo stesso Fossati, figlio di imprenditori della carta, per impadronirsi praticamente del mestiere, faceva un volontario tirocinio nei vari reparti degli uomini e più volentieri in quello delle donne, tra le quali, come afferma lo stesso, vi erano delle fiorenti ragazze brune o bionde.
Frequentando questo ambiente sentì più volte nominare un certo Mercadoni famoso per la sua lingua pronta e tagliente e per le burle che faceva al prossimo, nelle quali era maestro; era affetto da gibbosità (aveva la gobba), ma di viso piacente e aperto e come tutti i suoi simili aveva un vivo trasporto per le femmine le quali non si infastidivano di questo, ma lo contraccambiavano di risate e di scherni, facendo allusione alla sua deformità. Il gobbo masticava amaro e volle trarre vendetta contro l’elemento femminile, che lo pungeva toccandolo nel vivo.
In quel tempo era consuetudine a Toscolano che al sabato intervenisse diverse volte un frate del convento di Barbarano per predicare nella successiva domenica e anche per confessare la sera dopo il rosario e alla mattina dopo l’avemaria; il suo confessionale era preferito dalle donne e perché il cappuccino naturalmente non era del paese e perché indulgente o, come si dice, di manica larga; un sabato sera, travestito da francescano e senza destar sospetti, il Mercandoni siedè nel confessionale, che come è noto è mascherato da una tendina sulla porticella e nel suo seno o sulla sua finta barba dietro la grata vuotò il sacco dei peccati una ventina di donne di nulla fatte accorte, anzi contente per la paterna bontà, il facile perdono e le moderate pene per la remissione da parte del confessore. La mattina dopo, all’uscita della gente dalla messa solenne cantata, postosi il gobbo nella piazza adiacente alla chiesa, si mise ad apostrofare ad alta voce a una a una le sue penitenti, sciorinando e rinfacciando i peccati confessati, le civetterie e le marachelle delle ragazze e gli strappi alla fede coniugale delle maritate, tutto ciò in mezzo all’ilarità generale, alle grida e alle proteste delle accusate circuite da un assembramento di uomini, di donne tosto accorse al baccano.
Ne nacque un putiferio e il paese fu sottosopra; amanti delusi che oltraggiavano le fidanzate, mariti furibondi contro le mogli,queste scalmanate e scarmigliate a piangere di rabbia e a lanciare improperi contro i consorti, messe a soqquadro le case, tantochè dovette intervenire la gendarmeria a sedare i tumulti, a calmare gli animi esasperati e a procedere a una meticolosa inchiesta.
Il gobbo nel frattempo presentendo la tempesta aveva preso il largo, ma fu ricercato, inseguito, arrestato e condannato per sacrilegio; tuttavia, scontata la leggera pena, dietro invito del proprietario rioccupò il suo posto alla cartiera da abile e laborioso operaio quale era.
Nelle famiglie, ben presto, ricomposta la tranquillità e la concordia, fece ritorno il ciel sereno; gli uomini nella
loro proverbiale bontà o dabenaggine finirono coll’arrendersi ai dinieghi e alle proteste delle donne, esperte in simulazione per istinto femminile e prodighe di lacrime nei momenti difficili; tutte le accuse caddero annientate perché ritenute invenzioni e menzogne del Mercandoni.
Questi visse di poi sempre allegro, faceto e donnaiuolo non senza successi, perché oltre la garanzia e il prestigio della sua promettente virilità piena di audacia, incuteva rispetto e timore quale depositario degli intimi segreti carpiti; infatti quando le donne lo incontravano abbassavano gli occhi o sorridevano di sottecchi, mentre egli ne ammiccava uno solo.
Se questo fatto fosse realmente avvenuto, sarebbe stato molto grave, ma ritengo trattarsi di una leggenda, anche perché dalla metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri fra gli abitanti di Maderno e Toscolano non risulta alcuno che portasse questo cognome.
Andrea De Rossi
venerdì 20 settembre 2013
NUOVO PONTE GARBARIA E ANTICO GUADO
II nuovo “ponte della Garbaria”, recentemente (2002) costruito sul torrente Toscolano dall’Amministrazione Comunale per facilitare il collegamento fra i due centri di Maderno e Toscolano, ha preso questo strano nome in quanto, secondo lo storico Donato Fossati, sulla riva destra del fiume, in territorio di Maderno, esistette per diverso tempo una conceria tedesca di pellami , chiamata "Gerberei" dalla quale la zona prese, probabilmente, il nome italianizzato di GARBARIA Fu trasformata poi in un oleificio tuttora esistente. Quanto sopra è confermato dall’inventario delle strade del comune di Maderno redatto nel 1849 dall’Ing. Franco Novelli il quale fra “Le strade di Capra”, cioè quelle che allora partivanodalla strada Regia e si dirigevano verso il Promontorio, vi è compresa quella del Mulino e Garbaria (attuale Via Bellini) la quale viene così descritta: Parte dalla strada Regia e, dopo 48 metri, si divide in due rami, l’uno diretto verso est con metri 95 che porta al Mulino comunale (attuale Macello) e al fiume. L’altra, diretta al sud, tocca il portone delle Cartiere della Garbaria (ora Oleificio) ed entrando con metri 44 trova ed esce dal secondo portone a fronte del precedente indi, ripiegando verso sera, sbocca sulla strada Chini (attuale Via Promontorio) della lunghezza di metri 739.
Questo nuovo ponte, in cemento armato, è stato edificato nella stessa località (Garbaria) in cui, in tempi molto lontani, esisteva l’unico guado che collegava i centri di Maderno e Toscolano. Poco distante, in epoca più recente, fu costruito un ponticello di legno che attraversava il fiume e che fu demolito diversi decenni fa. Entrambi portavano direttamente all’Abbazia Domenicana, ora Palazzo Visintini, nel quale i Frati Domenicani costituirono, nel XIII secolo, il loro convento. Cerchiamo di ricostruire la storia di questi Monaci ed i motivi per i quali giunsero a Toscolano, grazie ad informazioni che ci ha lasciato il citato storico Fossati.
Le sponde ed il terreno circostante del torrente Toscolano del promontorio si formarono nel corso dei secoli a seguito dell’accumulo di materiale trascinato dal torrente e presero la loro denominazione dal suolo in cui sorgevano e precisamente “Grecenigo”, che significa erboso, quelle sulla sponda sinistra in territorio di Toscolano , per intenderci dove sorse l’Abbazia Domenicana e, “Onglarino, dal latino glarea che significa sabbia, quelle sulla sponda destra in territorio di Maderno.
Il collegamento fra i due centri, non esistendo alcun ponte sul torrente, si svolgeva, com’è stato accennato, attraverso un guado che a Toscolano era in prossimità dell’Ospizio di Grecenigo (attuale Palazzo Visintini) e a Maderno vicino all’odierno oleificio, quindi molto lontano dai centri abitati. L’ospizio, infatti, che Carlo Magno nell’8° secolo aveva imposto di tenere nei paesi in cui vi era la Corte Regia (dove si trovavano gli uffici statali) come a Toscolano, ospitava viandanti e pellegrini fra i quali anche molti lebbrosi ed appestati, motivo per il quale fu posto lontano dal paese. Vicino ad esso fu eretta la chiesetta di S.Lucia, della quale, all’interno dello stabile Visintini, sono rimaste labili tracce, L’ospizio, in quel tempo, era molto più vicino al lago che attualmente perché nel corso dei secoli il promontorio è andato estendendosi con l’apporto del materiale trascinato dal fiume.
Poco distante dall’attuale ponte cinquecentesco, di fronte all’ex cartiera Zuanelli-Andreoli, divenuta poi Vetturi, dove sorge ora la sede del Municipio, fu costruito in epoca successiva il primo ponte di legno che ha sostituito, in parte, il guado esistente.
All’inizio del XIII secolo fu fondato l’Ordine Domenicano ed approvato dal Papa Onorio III nel 1216. Quest’Ordine non solo aveva per scopo di sedare le guerre e le inimicizie e di predicare la pace e la concordia, ma anche quello, non trascurabile, della lotta contro le dottrine ereticali del Medio Evo e contro coloro che le personificavano. In particolare l’eresia “patarina”, sorta a Milano, era molto diffusa fra gli straccivendoli che, numerosi, frequentavano le cartiere locali per fornire loro la materia prima per la fabbricazione della carta. Anche gli storici Paolo Guerrini e Guido Lonati ritengono che i frati non giunsero a Toscolano solo per assistere gli infermi ed i pellegrini dell’Ospizio, ma per affrontare questa nuova eresia che in quel tempo era molto diffusa.
Fu in quel periodo che il comune di Toscolano cedette ai frati Domenicani l’intero complesso (Ospizio, chiesa e terreni annessi). I Monaci trasformarono l’Ospizio in un convento ed ampliarono la chiesetta di S.Lucia ed il tutto assunse al rango d’Abbazia Domenicana. Con duro lavoro trasformarono le terre incolte e paludose del delta in campi fecondi, piantandovi viti, olivi e limoni e diedero impulso alla più importante attività di Toscolano: la produzione della carta.
La prima cartiera ad entrare in funzione fu quella detta “di sopra”, cui seguì, dopo il prolungamento della seriola che servì anche per irrigare i campi e far muovere le macchine, quella “di sotto”, nonché altre due piccole laterali.
Per facilitare il commercio dei loro prodotti e l’attracco dei barconi, costruirono anche un porto chiamato “Porto dei frati”, per differenziarlo da quello del comune che si trovava in contrada “Benaco”(attuale zona porto). Sull’area interrata del “Porto dei frati” fu costruito, agli inizi del 1900 l’Oleificio Sociale che ebbe però breve durata e che, in tempi recenti, fu trasformato in un capannone per il rimessaggio delle barche, attività ora scomparsa.
Secondo una pergamena che si trova nell’Archivio Vescovile di Brescia, nel 1279 l’opera d’assestamento e di bonifica era tanto avanzata da includere la cinta muraria del brolo, parte della quale esiste tuttora.
I domenicani, quasi alla vigilia dal loro esodo da Toscolano, bonificarono anche i terreni divenuti di loro proprietà sulla sponda destra del fiume (promontorio di Maderno) chiamati “Onglarino”.
Nel tempo acquistarono altri beni a Maderno, tra i quali i monti di Seasso e, a Toscolano, Livrana e Selva Oscura, per ricavarne legna e fieno.
Un ricordo della presenza dei frati, come ricorda G.Lonati, è un’ara romana, che in questo caso altro non è che una parte di un’antica colonna capovolta, che ora si trova nel cortile della canonica di Maderno con incisa una croce e la data del 1693. Tale colonna che molto probabilmente fu recuperata, con tanti altri pezzi, fra i resti della villa romana di Toscolano, fino ai primi decenni del secolo scorso si trovava in località “Bolzem”, in fondo al lungolago di Maderno dove svetta un imponente platano. Questa località è stata sempre chiamata “la crocetta” per il motivo che i frati, provenienti dal loro convento, la utilizzavano come reggi croce, come testimonia il foro posto al centro del basamento, e fu posta come meta delle loro processioni.
Intorno al 1440, convento, chiesa e beni passarono in commenda (tipo di contratto in uso nel Medioevo che dava la facoltà d’uso di un beneficio ecclesiastico vacante senza che la persona ne diventasse proprietario) al patrizio Bartolomeo Malipiero o Maripietro e nel 1471 a Marino Badoaro.
Nel 1479 i domenicani rimasti convinsero lo stampatore Gabriele di Pietro, che lavorava a Messaga di Toscolano presso il fabbricante di carta Scalabrino Agnelli, a trasferirsi al convento con la sua attrezzatura, dove stampò diversi libri.
Nel 1483 Papa Sisto IV incorporò i beni al Convento di S.Croce della Giudecca di Venezia, perciò i frati furono costretti ad abbandonare il lago.
A seguito di un incendio che distrusse il loro convento a Venezia nel 1562, i beni di Toscolano furono venduti ai Monaci di S.Salvatore a Brescia, divenuti Canonici lateranensi di S.Afra, chiamati anche frati Agostiniani o padri del Rocchetto, i quali vi rimasero fino al 1772 e, con notevole lavoro, riportarono al loro aspetto originario i fabbricati e le industrie che erano stati a lungo trascurati.
Fu nel 1772 che nacque in una delle piccole cartiere presso il porto, figlio d’operaio, Bartolommeo Bertolazza, anch'esso operaio negli anni giovanili, divenuto poi famoso suonatore di mandolino e compositore d’opere musicali.
Dopo il 1772, soppresso il monastero, il Senato veneto vendette i beni a Giovanni Torre che, nel 1793, a sua volta, li rivendette al nobile Angelo Olivari di Salò e, infine, nel 1815, passarono in proprietà ai Visintini di Morgnaga di Gardone Riviera. Fabio Visintini nel suo libro “Memorie di un cittadino psichiatra” precisa che del vecchio convento è tuttora conservata la porta ad arco ogivale che dava accesso alla sala refettorio, successivamente diventato magazzino, situata all’angolo nordest del cortile di casa, chiuso a nord e ad ovest da quelle parti di fabbricato che, in seguito a diverse modifiche, furono abbellite da un portico costruito sulle colonne recuperate dall’atrio del tempio crollato di S.Antonio in Toscolano, e divennero l’abitazione della sua famiglia.
Intanto, afferma Fabio Visintini, il nome alternativo e più antico del luogo “Grecenigo” fu definitivamente perduto per essere sostituito con quello di Religione di San Domenico.
Di quel borgo medievale non restano oggi che poche e labili tracce, mentre a lungo sopravvisse la festa di S.Domenico nella cui ricorrenza il parroco di Toscolano si recava là con tutti i sacerdoti del comune di Toscolano per celebrare la S.Messa, mentre nei dintorni si svolgeva una fiera.
Nel Museo Civico di Verona è depositato il “Sigillum Conventus Sancti Dominici de Tusculano”.
Dai documenti esaminati e trascritti nella tesi di laurea sull’argomento da parte di Silvia Tisi, attinti all’Archivio di Stato di Milano, risulta che il convento era denominato “Religione di S.Domenico” e se ne possono conoscere i membri. La comunità era retta da un “preposito” il quale era il principale responsabile dell’organizzazione materiale e spirituale della casa. Era in sostanza un fratello maggiore degli altri frati, ma primo in dignità, nel lavoro e nella carità. Oltre al “preposito” vi erano alcuni “fratres”, semplici chierici o forse anche solo laici. I “prepositi”erano per lo più preti ma provenivano da altri paesi (escluso Toscolano), mentre i “Fratres” provenivano da Toscolano o dalle zone vicine.
Erano proprietari di numerosi terreni non solo a Toscolano e Maderno, ma anche nei comuni vicini e nella Valtenesi. I terreni erano dati in affitto dai tre ai nove anni, dietro pagamento in natura (olio, vino, capponi, polli, tordi, frutta, frumento, ecc.) e, in parte minima, in denaro. Interessante esaminare, sugli atti, il tipo dei terreni che davano in affitto. Potevano essere per terra olivata (coltivazione ad olivi), terra vidata (coltivazione a vite), terra rosiva (coltivata a roseum, pianta che produce una sostanza usata in tintoria), terra loriva (coltivata ad alloro), terra vegra (appezzamento
incolto). Andrea De Rossi
Le sponde ed il terreno circostante del torrente Toscolano del promontorio si formarono nel corso dei secoli a seguito dell’accumulo di materiale trascinato dal torrente e presero la loro denominazione dal suolo in cui sorgevano e precisamente “Grecenigo”, che significa erboso, quelle sulla sponda sinistra in territorio di Toscolano , per intenderci dove sorse l’Abbazia Domenicana e, “Onglarino, dal latino glarea che significa sabbia, quelle sulla sponda destra in territorio di Maderno.
Il collegamento fra i due centri, non esistendo alcun ponte sul torrente, si svolgeva, com’è stato accennato, attraverso un guado che a Toscolano era in prossimità dell’Ospizio di Grecenigo (attuale Palazzo Visintini) e a Maderno vicino all’odierno oleificio, quindi molto lontano dai centri abitati. L’ospizio, infatti, che Carlo Magno nell’8° secolo aveva imposto di tenere nei paesi in cui vi era la Corte Regia (dove si trovavano gli uffici statali) come a Toscolano, ospitava viandanti e pellegrini fra i quali anche molti lebbrosi ed appestati, motivo per il quale fu posto lontano dal paese. Vicino ad esso fu eretta la chiesetta di S.Lucia, della quale, all’interno dello stabile Visintini, sono rimaste labili tracce, L’ospizio, in quel tempo, era molto più vicino al lago che attualmente perché nel corso dei secoli il promontorio è andato estendendosi con l’apporto del materiale trascinato dal fiume.
Poco distante dall’attuale ponte cinquecentesco, di fronte all’ex cartiera Zuanelli-Andreoli, divenuta poi Vetturi, dove sorge ora la sede del Municipio, fu costruito in epoca successiva il primo ponte di legno che ha sostituito, in parte, il guado esistente.
All’inizio del XIII secolo fu fondato l’Ordine Domenicano ed approvato dal Papa Onorio III nel 1216. Quest’Ordine non solo aveva per scopo di sedare le guerre e le inimicizie e di predicare la pace e la concordia, ma anche quello, non trascurabile, della lotta contro le dottrine ereticali del Medio Evo e contro coloro che le personificavano. In particolare l’eresia “patarina”, sorta a Milano, era molto diffusa fra gli straccivendoli che, numerosi, frequentavano le cartiere locali per fornire loro la materia prima per la fabbricazione della carta. Anche gli storici Paolo Guerrini e Guido Lonati ritengono che i frati non giunsero a Toscolano solo per assistere gli infermi ed i pellegrini dell’Ospizio, ma per affrontare questa nuova eresia che in quel tempo era molto diffusa.
Fu in quel periodo che il comune di Toscolano cedette ai frati Domenicani l’intero complesso (Ospizio, chiesa e terreni annessi). I Monaci trasformarono l’Ospizio in un convento ed ampliarono la chiesetta di S.Lucia ed il tutto assunse al rango d’Abbazia Domenicana. Con duro lavoro trasformarono le terre incolte e paludose del delta in campi fecondi, piantandovi viti, olivi e limoni e diedero impulso alla più importante attività di Toscolano: la produzione della carta.
La prima cartiera ad entrare in funzione fu quella detta “di sopra”, cui seguì, dopo il prolungamento della seriola che servì anche per irrigare i campi e far muovere le macchine, quella “di sotto”, nonché altre due piccole laterali.
Per facilitare il commercio dei loro prodotti e l’attracco dei barconi, costruirono anche un porto chiamato “Porto dei frati”, per differenziarlo da quello del comune che si trovava in contrada “Benaco”(attuale zona porto). Sull’area interrata del “Porto dei frati” fu costruito, agli inizi del 1900 l’Oleificio Sociale che ebbe però breve durata e che, in tempi recenti, fu trasformato in un capannone per il rimessaggio delle barche, attività ora scomparsa.
Secondo una pergamena che si trova nell’Archivio Vescovile di Brescia, nel 1279 l’opera d’assestamento e di bonifica era tanto avanzata da includere la cinta muraria del brolo, parte della quale esiste tuttora.
I domenicani, quasi alla vigilia dal loro esodo da Toscolano, bonificarono anche i terreni divenuti di loro proprietà sulla sponda destra del fiume (promontorio di Maderno) chiamati “Onglarino”.
Nel tempo acquistarono altri beni a Maderno, tra i quali i monti di Seasso e, a Toscolano, Livrana e Selva Oscura, per ricavarne legna e fieno.
Un ricordo della presenza dei frati, come ricorda G.Lonati, è un’ara romana, che in questo caso altro non è che una parte di un’antica colonna capovolta, che ora si trova nel cortile della canonica di Maderno con incisa una croce e la data del 1693. Tale colonna che molto probabilmente fu recuperata, con tanti altri pezzi, fra i resti della villa romana di Toscolano, fino ai primi decenni del secolo scorso si trovava in località “Bolzem”, in fondo al lungolago di Maderno dove svetta un imponente platano. Questa località è stata sempre chiamata “la crocetta” per il motivo che i frati, provenienti dal loro convento, la utilizzavano come reggi croce, come testimonia il foro posto al centro del basamento, e fu posta come meta delle loro processioni.
Intorno al 1440, convento, chiesa e beni passarono in commenda (tipo di contratto in uso nel Medioevo che dava la facoltà d’uso di un beneficio ecclesiastico vacante senza che la persona ne diventasse proprietario) al patrizio Bartolomeo Malipiero o Maripietro e nel 1471 a Marino Badoaro.
Nel 1479 i domenicani rimasti convinsero lo stampatore Gabriele di Pietro, che lavorava a Messaga di Toscolano presso il fabbricante di carta Scalabrino Agnelli, a trasferirsi al convento con la sua attrezzatura, dove stampò diversi libri.
Nel 1483 Papa Sisto IV incorporò i beni al Convento di S.Croce della Giudecca di Venezia, perciò i frati furono costretti ad abbandonare il lago.
A seguito di un incendio che distrusse il loro convento a Venezia nel 1562, i beni di Toscolano furono venduti ai Monaci di S.Salvatore a Brescia, divenuti Canonici lateranensi di S.Afra, chiamati anche frati Agostiniani o padri del Rocchetto, i quali vi rimasero fino al 1772 e, con notevole lavoro, riportarono al loro aspetto originario i fabbricati e le industrie che erano stati a lungo trascurati.
Fu nel 1772 che nacque in una delle piccole cartiere presso il porto, figlio d’operaio, Bartolommeo Bertolazza, anch'esso operaio negli anni giovanili, divenuto poi famoso suonatore di mandolino e compositore d’opere musicali.
Dopo il 1772, soppresso il monastero, il Senato veneto vendette i beni a Giovanni Torre che, nel 1793, a sua volta, li rivendette al nobile Angelo Olivari di Salò e, infine, nel 1815, passarono in proprietà ai Visintini di Morgnaga di Gardone Riviera. Fabio Visintini nel suo libro “Memorie di un cittadino psichiatra” precisa che del vecchio convento è tuttora conservata la porta ad arco ogivale che dava accesso alla sala refettorio, successivamente diventato magazzino, situata all’angolo nordest del cortile di casa, chiuso a nord e ad ovest da quelle parti di fabbricato che, in seguito a diverse modifiche, furono abbellite da un portico costruito sulle colonne recuperate dall’atrio del tempio crollato di S.Antonio in Toscolano, e divennero l’abitazione della sua famiglia.
Intanto, afferma Fabio Visintini, il nome alternativo e più antico del luogo “Grecenigo” fu definitivamente perduto per essere sostituito con quello di Religione di San Domenico.
Di quel borgo medievale non restano oggi che poche e labili tracce, mentre a lungo sopravvisse la festa di S.Domenico nella cui ricorrenza il parroco di Toscolano si recava là con tutti i sacerdoti del comune di Toscolano per celebrare la S.Messa, mentre nei dintorni si svolgeva una fiera.
Nel Museo Civico di Verona è depositato il “Sigillum Conventus Sancti Dominici de Tusculano”.
Dai documenti esaminati e trascritti nella tesi di laurea sull’argomento da parte di Silvia Tisi, attinti all’Archivio di Stato di Milano, risulta che il convento era denominato “Religione di S.Domenico” e se ne possono conoscere i membri. La comunità era retta da un “preposito” il quale era il principale responsabile dell’organizzazione materiale e spirituale della casa. Era in sostanza un fratello maggiore degli altri frati, ma primo in dignità, nel lavoro e nella carità. Oltre al “preposito” vi erano alcuni “fratres”, semplici chierici o forse anche solo laici. I “prepositi”erano per lo più preti ma provenivano da altri paesi (escluso Toscolano), mentre i “Fratres” provenivano da Toscolano o dalle zone vicine.
Erano proprietari di numerosi terreni non solo a Toscolano e Maderno, ma anche nei comuni vicini e nella Valtenesi. I terreni erano dati in affitto dai tre ai nove anni, dietro pagamento in natura (olio, vino, capponi, polli, tordi, frutta, frumento, ecc.) e, in parte minima, in denaro. Interessante esaminare, sugli atti, il tipo dei terreni che davano in affitto. Potevano essere per terra olivata (coltivazione ad olivi), terra vidata (coltivazione a vite), terra rosiva (coltivata a roseum, pianta che produce una sostanza usata in tintoria), terra loriva (coltivata ad alloro), terra vegra (appezzamento
incolto). Andrea De Rossi
mercoledì 18 settembre 2013
LA MORIA DI MADERNO DEL 1484
Le conseguenze sanitarie delle numerose
guerre e invasioni che nei secoli scorsi si avvicendavano frequentemente erano
la diffusione della peste e del colera.
Anche la riviera del Garda non sfuggì a questi tristi avvenimenti.
Per avere un’idea esatta di questa terribile
malattia, basti ricordare quella avvenuta nel 1630 ed ampiamente descritta in
tutti i particolari dal Manzoni nei suoi "Promessi sposi"
Naturalmente anche prima di tale data le
pestilenze colpirono le nostre terre. Ricordiamo quella del 1567 che fece
numerose vittime e fu proprio in tale occasione che si distinse per la sua
bravura quel famoso medico toscolanese ANDREA GRAZIOLI che è ricordato con una
lapide nella Parrocchiale di Toscolano. Egli soccorse e curò con passione le
persone colpite dal morbo e pubblicò anche un libro nel quale insegnava il modo
di prevenire e curare questo terribile male che durò per ben tre anni. In
questo periodo ad aggravare maggiormente la situazione igienico-sanitaria si
aggiunse l'invasione della riviera da parte di ben 5000 zingari che oltre ai
saccheggi seminarono anche morte.
In particolare Maderno ricorda una
gravissima pestilenza che si presume sia avvenuta intorno al 1484.
Nel 1599 lo storico Bongiani Gratarolo nel
libro 3° della "Historia della Riviera di Salò" così la descrive:
"Ci fu poco sopra la nostra età una pestilenza
tanto grande, che fè rimaner un questo paese un proverbio, che ci dura ancora,
che quando alcuno vuol augurar pur assai male altrui, par che non possa dir
peggio che, Ti venga la morìa di
Maderno"
mentre
il fratello Antonio nel decimo canto del suo Benaco recita:
Ma non è da tacer questo ch'io scerno
Peste crudel che struggerà Materno
questa sarà si abominosa e fiera
C'huom vivo alcun non lascieravi sano,
Nè animal dimestico nè fiera
Che non lo atterri il suo contaggio strano,
Nè augello sol vi volara nè a schiera
Che non tiri il corrotto Aer al piano,
E ben sarà conforme à quella c'hora
La misera Toscana ange e divora.
Infine
non dobbiamo dimenticare una delle ultime epidemie: il colera che colpì Maderno
nel 1836 e che fece ben 38 vittime.
Fu per la fine di questo morbo che la comunità
di Maderno fece un voto di innalzare un monumento in onore a S.Ercolano che fu
realizzato ed inaugurato in Piazza nel 1838. L'onere per la costruzione dello stesso
fu interamente finanziato con le offerte dei parrocchiani che attribuirono al
Santo il merito di aver domato l'epidemia.
Andrea De Rossi
PAUL HEYSE OSPITE AL "CAVALLO BIANCO"
Prima di parlare del poeta tedesco Paul Heyse,
cerchiamo di ricostruire la storia di questa antica locanda che lo ospitò nel
1870.
Per
chi non lo sapesse l’antica locanda del “Cavallo Bianco”, ora abitazione
civile, era situata a Toscolano in Via Trento,31, di fronte all’ex Caffè Bonizzoli e locanda
La Fiorita.(ora DEC arredamenti) Da quando iniziò la sua attività “Il Cavallo Bianco” cambiò più volte nome. Non
è dato sapere invece, la data in cui venne aperto.
Da una documentazione in mio possesso risulta
che già nel 1873 lo scrittore Enea Bignami nella descrizione del suo “Giro
intorno al Lago di Garda” ebbe occasione di citare la locanda “Cavallo Bianco”
di Toscolano, che gli era stata particolarmente raccomandata da amici.
La rivista “Il Garda” del 1890 pubblica
notizia che la stessa fu riaperta (probabilmente restò chiusa per alcuni anni)
il 1 Febbraio 1890 con la nuova insegna del “Gambero”. Verso la fine dell'Ottocento
e fino ai primi del Novecento riprese il suo nome originario di “Cavallo Bianco”
. Nel 1903,
Micheletti, nella sua Guida “Al Garda” lo cita così: “… un buono e civile albergo del “Cavallo Bianco”, detto Candita, con
illuminazione elettrica…”. Nella
pubblicità si cita il proprietario dell’epoca: Maceri Giovanni. Infine, nel
primo decennio di questo secolo, fu definitivamente chiamata “Cavallino Bianco”
fino al 1967, data in cui chiuse definitivamente i battenti.
Ritorniamo
ora a Paul Heyse, il famoso poeta e prosatore tedesco, Premio Nobel per la
letteratura e profondo conoscitore dell’Italia, oltre che traduttore di poeti
italiani, nato a Berlino nel 1830 e morto a Monaco nel 1914. Dal 1901 al 1910
soggiornò sul Garda e precisamente a Gardone Riviera, nella Villa Fritzsche
(ora chiamata Itolanda). La villa che si trova fra il Casinò e l’Albergo
Fiordaliso, fu da lui acquistata nel 1899 e dedicata alla moglie Annina.. E’
qui che scrisse le sue “Novellen von Gardasee” (Novelle del Garda - tradotte in
italiano da Silvia Faini). La stessa villa fu anche la dimora, di Vittorio
Mussolini e della sua famiglia, durante
il periodo della Repubblica Sociale. In una di queste novelle descrive il breve
soggiorno a Toscolano presso la locanda del “Cavallo Bianco”, diversi anni
prima di acquistare la villa a Gardone, luogo che un suo amico gli aveva
raccomandato unitamente alla locanda “Cavallo Bianco”, a motivo della pulizia e
del prezzo modico.
“…Nel limpido sole autunnale del 3 ottobre ero
arrivato con l’imbarcazione proveniente da Desenzano, passando davanti a Salò e
Gardone Riviera, allora ancora sconosciuto e alla ridente Maderno…” così
descrive il suo arrivo per la prima volta sul Garda. Sceso dal natante a
Maderno, raggiunse Toscolano attraverso un viale d’allori e successivamente,
nell’unico vicolo esistente senza sole, tanto da provarne una sgradevole sensazione
che gli fece pentire di non aver seguito la prima impressione ed essere rimasto
a Maderno. La cordiale accoglienza del gestore della locanda, al quale presentò
subito i saluti del vecchio amico ospite, gli fece cambiare opinione.
Secondo Heyse la casa in cui soggiornava non si
trovava in posizione solatia, ed assomigliava più ad una locanda con stallaggio
(era effettivamente una locanda con stallo) che ad un albergo. E così continua:
”…e anche l’unica stanza, saltuariamente
occupata da qualche straniero di passaggio e che era servita per l’appunto al
mio amico, era solo un grande locale spoglio, dipinto di bianco, senz’altra
mobilia che l’ampio letto di ferro dalle grezze lenzuola immacolate, una sedia
di paglia, un lavabo su un sostegno di ferro e un tavolinetto traballante.
Alcuni ganci e chiodi alla porta facevano le veci dell’armadio e del cassettone...”.
Nonostante ciò ritenne che si poteva considerare una stanza allegra perché
dall’unica finestra che dava sul cortile interno, si poteva ammirare un
giardino ancora fiorito di dalie e di rose, chiuso in fondo da una serra colma
di limoni.
Familiarizzò
subito con la moglie ed il figlio del locandiere. Il giorno successivo, di buon
mattino, scese nell’uliveto dove, secondo la tradizione, doveva trovarsi
l'antico “Benacus” e da lì uno scenario di luci e colori gli si presentò di fronte,
con lo sfondo del Monte Baldo.
Quando
verso mezzogiorno ritornò alla locanda, dalla porta della cucina gli venne
incontro il gestore il quale aveva su ogni mano un pezzo di carne cruda con
l’intenzione di chiedergli quali delle due qualità avesse preferito gustare:
quella di manzo o quella d’agnello. Con la stessa disinvoltura, riguardo al
pranzo, si comportò anche nei giorni successivi. Ma il poeta era talmente
attratto dall’arte e dalla bellezza dei luoghi, che molto raramente si occupava
del suo nutrimento, tanto da non saper affermare se la cucina corrispondeva
alle sue aspettative.
Poco
distante vi era l’unico caffè del paese, quindi il mattino successivo pensò di
fare colazione proprio lì in quanto, secondo l’abitudine italiana, non era
possibile consumarla nell’albergo in cui si era alloggiati.
“LUIGI CARAMELLA, CAFE’ E LIQUORI”
questa era la scritta che spiccava all’esterno dell’esercizio. Dalla finestra
della stanza in cui era alloggiato, la sera prima aveva notato che davanti
all’ingresso del caffè vi era una piccola schiera di notabili del luogo che
fumavano e sorseggiavano diverse bevande di vari colori, impegnati in un’animata discussione della
quale però il poeta non riuscì a capire una sillaba perché, afferma, lì anche
il Parroco ed il Maestro usavano esclusivamente il dialetto locale.
Quando
verso le dieci gli ospiti se ne andarono, l’oste prese un mandolino e
accompagnò alcune canzonette popolari cantandole nel più puro dialetto
napoletano.
Il
mattino seguente il poeta decise di entrare nel caffè, e. Giggi Caramella si
presentò subito al nuovo ospite come un autentico napoletano, nato nel cuore di
Santa Lucia. Era un tipo snello, bruno scuro, con occhi di fuoco che facevano capire
tutta la sua scaltrezza e malizia, molto diverso – afferma Paul Heyse – dai
visi lombardi con cui era abituato a convivere.
Naturalmente
l’oste raccontò all’ospite tutta la sua vita: era giunto a Genova per svolgere
affari per conto del fratello maggiore che possedeva grandi vigneti a Posilippo
e quindi per commerciare il suo vino. In seguito ad una gita sul lago di Garda
si era trasferito a Toscolano e poichè il padrone del caffè era deceduto, aveva
pensato di subentrargli, non tanto per gli ospiti del locale con i quali non c’era
molto da guadagnare, ma per fissare quassù una base per lo smercio del “suo”
vino. Sempre secondo l’oste napoletano, il “vino del Vesuvio” presto era
diventato popolare in loco. Dopo queste descrizioni così colorite il poeta fu
tentato di gustarlo anche perché al “Cavallo Bianco” non è che si parlasse
molto bene di lui ed in più ai clienti veniva somministrato solo il proprio
vino che era acidulo.
Finite
le presentazioni Paul Heyse si rivolse
all’oste per ottenere un caffè, motivo per il quale aveva deciso di recarsi in
quel locale. Dopo alcune tergiversazioni che non gli piacquero molto all’ospite
ed una lunga attesa, l’oste gli portò una mistura torbida e densa in un piccolo
bricco storto di stagno con dei pezzettini polverosi di zucchero e un panino
non certo fresco vicino ad una tazza un po’ sciupata. Se l’ospite desiderava
del latte, affermò l’oste, lo avrebbe mandato a prendere perché i suoi clienti
bevevano solo caffè nero e preferivano, piuttosto, bibite, vino, liquori ed
acqua gazzosa.
Dopo
questa prima esperienza Paul Heyse pensò bene di rinunciare a far colazione in
questo caffè e presso la locanda in cui soggiornava, si fece preparare nei
giorni seguenti qualcosa che assomigliasse ad un caffèlatte.
Quanto
descritto dal poeta sono solo piccoli particolari inerenti il suo soggiorno a
Toscolano. Il suo interesse principale fu soprattutto la natura che lo
circondava. Non vi fu colle o fattoria solitaria nel raggio fra Montemaderno e
la bianca chiesetta di Gaino che esaminasse con curiosità di artista in cerca
di motivi pittorici, tanto che in quei giorni riempì il suo album di “…paesaggetti con ornamenti…”.
Nei
vigneti e negli uliveti vedeva gli uomini svolgere il loro lavoro senza canti e
suoni. Non c’era molta allegria nel paese, se si escludono le risate di Giggi
Caramella. Si vedevano solo espressioni serie e tristi, perfino fra le ragazze
e i bambini. Il poeta venne poi a sapere dal locandiere la ragione di quello
stato d’animo spento e triste. Gli ultimi tre anni erano state annate cattive
per il vino e per le olive. Così alcuni erano stati costretti a cercare lavoro
nelle fabbriche di carta, nella gola del fiume Toscolano, “…lavoro che veniva mal pagato e che rendeva
gli uomini, immagine di Dio, delle macchine...”
Quanti
- afferma il poeta - “…a causa sua si
erano rovinati corpo e anima solo per far arricchire i proprietari…” E
perché tanto bisogno di carta? Di libri ce n’erano già abbastanza nel mondo ed
i giornali raccontavano solo menzogne. Se non ci fosse stata la carta il
cittadino non sarebbe stato inquietato dai bollettini delle imposte. La carta,
conclude il poeta, “…era dunque
un’invenzione del diavolo e il Santo Padre a Roma avrebbe dovuta proibirla
a tutti i buoni cristiani…”,
dimenticandosi però, di rilevare che lui
stesso ne faceva un ampio uso per la sua attività.
Concludendo
questa sua novella Paul Heyse racconta che dopo più di un quarto di secolo
ritornò con la moglie a Salò e non mancò di fare una capatina a Toscolano per
rivedere il suo “Cavallo Bianco” che era divenuto “Cavallino Bianco”. Seppe che
da allora la pensione era passata in tre mani. L’attuale locandiera, essendo del
posto, raccontò tutte le notizie riguardanti i precedenti proprietari ed altri
personaggi che aveva conosciuto nella
sua breve permanenza. Il caffettiere Giggi Caramella, pieno di debiti fino al
collo, se ne dovette scappare lasciando sola la sua Adele con una bimba
piccola.
Fin
qui la descrizione del poeta.
Per
quanto riguarda il Caffè del Caramella ritengo che non possa essere che quello
ubicato a piano terra dell’edificio posto a sinistra dell’ingresso in Via
Cartiere, l’unica strada che un tempo conduceva all’interno della valle, dove
attualmente si trova una parrucchiera (a 50 metri in via d’aria dal giardino
interno della locanda ”Cavallo Bianco”). Nello stesso locale, diverse decine di
anni fa, vi era l’Ufficio del Dazio.
Nella
mia collezione ho la preziosa fotografia ingiallita dal tempo qui sotto
riprodotta, risalente circa alla fine
dell’800 che mostra il locale sopracitato con una nuova scritta all’ingresso:
AL TICINO – LIQUORI – VINO. Senza dubbio
è lo stesso locale in cui s’installò Giggi Caramella, cambiandone però
l’insegna.
mercoledì 11 settembre 2013
ANCHE IMMAGINI D'EPOCA AL MUSEO DELLA CARTA
Cartoline d'epoca esposte nel Museo
Manifesti, proclami e giornali dell'ultima guerra
Presso il Museo della carta, in valle delle Cartiere, è stato successivamente aggiunto un reparto dove sono state esposte immagini, proclami e giornali d’epoca che lo scrivente ha offerto al Comune. L’ex Sindaco Roberto Righettini lo ha inaugurato il 25 aprile 2013 ed il nuovo, sig.ra Delia Castellini, il 26 luglio 2013. Detto materiale fa parte della mia personale collezione. Le 256 immagini, con relativa didascalia di Toscolano-Maderno, sono state inserite in otto contenitori forniti dal Comune a cura di Lucio Fante, mentre i proclami emanati durante l’ultima guerra ed alcuni quotidiani riguardanti lo stesso periodo sono stati invece allestiti, con competenza e buon gusto, in appositi contenitori predisposti dal Gruppo operativo dell’Associazione lavoratori anziani della cartiera di Toscolano. A tutti rivolgo un particolare ringraziamento
Andrea De Rossi
MUSEO DELLA CARTA IN VALLE CARTIERE
Le origini
della cartiera
di
Maina
Inferiore (Macalè)
diventata
ora sede del
CENTRO
DI ECCELLENZA
uno dei
MUSEI della carta più importanti d’Italia
L’antico
stabilimento cartario di Maina Inferiore, chiamato anche Macalè, che si trova
nella Valle delle Cartiere e dismesso dalla Cartiera Donzelli sin dal lontano
1962 per avere trasferito l’attività nella nuova fabbrica di “Capra” sul promontorio
di Toscolano, è ora completamente risorto ed abbellito, pur mantenendo le sue
linee strutturali originarie. Ciò è grazie ad un finanziamento che la Regione
Lombardia ha concesso al Comune di Toscolano Maderno, nell’ambito dei
finanziamenti del cosidetto “Obbiettivo 2” di un contributo di oltre 6 milioni
di euro dei quali il 40% è a fondo perduto ed il restante 60% da restituire in
venti anni a tasso zero.
La ristrutturazione fu iniziata il 30
aprile 2005 e, dopo 665 giornate lavorative, il lavoro è terminato. Alla
presenza di numerose Autorità, l’inaugurazione è avvenuta il 2 giugno 2007.
Il fabbricato, completamente messo a nuovo, è divenuto
la sede del “Centro di eccellenza e
incubatoio alla filiera carta-stampa”. Non solo è stata mantenuta l’originaria
ciminiera, l’unica rimasta nella valle, ma è stata anche rinforzata per
renderla più stabile. Il progetto è stato redatto dall’Ufficio Tecnico Comunale
ed il responsabile unico del procedimento è l’architetto Anna Brisinello unitamente
allo studio Associato di Sandro Barba,
Fausto Usardi e Mauro Salvatori, mentre i lavori di ristrutturazione sono stati
eseguiti dall’Impresa Edil Atellana di Atella (Caserta). Artefice del lavoro di
coordinamento è stata l’Arch.Anna Brisinello, archeologa che alla Valle delle
Cartiere ha dedicato la sua tesi di laurea, mentre l’attuale Sindaco, Ing.
Paolo Elena, è stato il promotore ed il sostenitore di quest’importante
iniziativa
Qui è stato inserito il museo della carta che dal
settembre 2002 era collocato provvisoriamente nel piccolo stabile dove un tempo
c’era la portineria dello stabilimento.
Il Centro è distribuito in cinque corpi di fabbrica ed
in 19 locali situati al piano interrato, al piano terra ed al I° piano nei
quali sono state installate antiche macchine usate anticamente per la
fabbricazione della carta e riattivate, oltre che a preziosi documenti
d’importanza storica attinenti all’attività cartaria. Vi è una moderna sala
convegni con 90 posti, un locale per assistere ai filmati multimediali ed un ambiente
per ristoro dei bambini e un bar ristorante con sei posti letto. Nei vari
locali vi sono installazioni multimediali che consentono di addentrarsi nel
mondo cartario.
La responsabile scientifica del Centro è la Dott.ssa Lisa Cervigni,
archeologa, la quale ha esposto alcuni reperti provenienti dagli scavi
archeologici di tre cartiere sepolte nella valle condotti assieme al Prof.
Brogiolo, ordinario di Archeologia Medievale presso l’Università di Padova e a
diversi suoi studenti negli anni dal 2002 al 2006 nei siti di Gatto, Maina
Superiore e Maina di mezzo.
Ora è stato dato dal Comune in comodato
d’uso alla “Fondazione della Valle delle Cartiere”, costituitasi il 1.3.2007, della
quale fanno parte oltre il comune stesso con il 49%, la Cartiera Marchi-Burgo
con il 49% e l’Associazione lavoratori anziani della cartiera con il 2%..
Questi ultimi hanno il compito di provvedere alla gestione e alla promozione
del Museo.
Questo edificio si trova sul mappale
1486 che, fino al 1928, data di costituzione del comune di Toscolano Maderno,
era in territorio del comune censuario di Maderno ed ha origine molto antiche. La
parte di fabbricato che si trova verso la montagna, invece, risale al 1876; un
tempo vi era sistemata la caldaia e, accanto, è possibile ammirare la ciminiera,
anch’essa ristrutturata, l’unica delle tante esistenti, rimasta in tutta la
valle.
Il ponte in pietra e la portineria
risalgono invece a dopo il 1874, anno di realizzazione della tanto agognata
strada con gallerie, che da Toscolano porta direttamente nel cuore della valle.
La costruzione di questa nuova strada di comunicazione fu dovuta sia alle
aumentate necessità di circolazione dei mezzi divenuti quasi tutti a motore,
sia all’installazione della nuova macchina continua produttrice di carta che
richiedeva la presenza degli operai ventiquattro ore su ventiquattro. Il
prodotto ricavato da questa preziosa innovazione, era asciugato
contemporaneamente dal vapore prodotto dalle caldaie, abbandonando il vecchio
sistema di stendere i fogli di carta in appositi stanzoni, chiamati stenditoi, dove
alle finestre erano applicate delle caratteristiche persiane mobili con le
quali si poteva regolare il flusso d’aria per meglio asciugare la carta. Non ci
dobbiamo dimenticare che per oltre cinque secoli il rifornimento di materie
prime alle fabbriche esistenti dentro la valle ed il trasporto del prodotto
finito, avveniva esclusivamente su carri trainati da buoi o muli, attraverso
impervi sentieri e mulattiere che passavano dalla frazione di Gaino. A questo
proposito è bene ricordare che nel 2007 l’Amministrazione Comunale ha
predisposto il ripristino di queste vie di collegamento che invito a voler
visitare per meglio rendersi conto delle difficoltà che i nostri avi dovevano
affrontare.
Nel 1876 fu costituita la ditta Andrea
Maffizzoli, succeduta a Pietro, la quale acquistò anche questa cartiera. Nel
1901 fu ricordato il 25° anniversario di fondazione della ditta (13 marzo 1876
– 13 marzo 1901) con la stampa di una cartolina postale che riproduceva sullo
sfondo i nuovi stabilimenti di Maina Superiore, ed in appositi medaglioni, le
effigi dei due gerenti, i fratelli Andrea e Giuseppe Maffizzoli.
Dalle varie notizie pubblicate
riguardanti le cartiere poste nella valle, risulta che intorno al 1700 questo
opificio (di Maina Inferiore) fu inizialmente di proprietà della famiglia
Assandri, originaria di Pulciano, che poi assunse il cognome di Delay e che all’inizio
del Cinquecento era proprietaria anche
di alcune ferriere in località Camerate. Da Pulciano i Delay si trasferirono
poi a Toscolano nel palazzo Danza, successivamente passato ai Villa. Verso la
metà del Seicento i Delay costruirono il bellissimo palazzo al porto di
Toscolano, divenuto poi di proprietà Maffizzoli, nel quale il celebre pittore
Andrea Celesti dipinse alcuni splendidi quadri. Dalla repubblica Veneta i Delay
ottennero il titolo nobiliare di Conti per aver fornito alla flotta veneziana
bombe, ancore, corazze e catene, costruite nelle loro ferriere.
Poi la proprietà della cartiera di
Maina Inferiore passò ai madernesi: Veronese nel 1811, Hell nel 1852, e agli
Emmer nel 1872. Nei primi anni del 1900 i proprietari furono i Maffizzoli, in
seguito i Donzelli ed infine i Marchi di Vicenza.
Verso la metà dell’Ottocento i
Maffizzoli, assieme ai Bianchi, costituirono una società per la gestione di
questo stabilimento il quale, nel 1889, era considerato uno dei migliori della
provincia dove si produceva anche carta colorata. Tale società fu denominata
Bianchi-Maffizzoli. Nel 1868 la direzione di questa fabbrica fu affidata al
socio Rocco Bianchi, affiancato dal figlio G. Battista, che divenne in seguito
Sindaco di Maderno e la sua abitazione fu prima al Palazzo Bianchi in piazza
(ora Hotel Golfo) e poi alla villa del “Serraglio”.
Si presume che la Società Bianchi-Maffizzoli,
durante la sua gestione, avesse preso lo stabile in affitto dagli Emmer. Verso
la fine dell’800 questa società ebbe un rovescio economico. I soci coprirono le
spese e la società fu sciolta e sostituita dalla “F.lli Maffizzoli di Giuseppe”
con atto notarile 15.9.1891. Nel 1906 si associa con Ettore Bianchi, figlio di
Rocco e nel 1920 gli affida la gestione dell’Azienda.
Nel 1905, per iniziativa dei fratelli
Maffizzoli e Ettore Bianchi, la ditta Andrea Maffizzoli che aveva due macchine continue per la
fabbricazione della carta negli stabilimenti di Maina Inferiore e Superiore,
costituì la Società in accomandita per azioni denominata “Cartiera Maffizzoli
Andrea” con lo scopo di costruire nel promontorio di Toscolano, in località
Capra, un moderno stabilimento che funzionasse esclusivamente con l’energia
elettrica prodotta nella centrale dei Covoli.
Come è stato in precedenza
indicato questa cartiera cessò definitivamente la sua attività nel 1962 e da
allora ebbe inizio il suo progressivo degradoAndrea De Rossi
Cartiera Maina inf, prima della ristrutturazione
La stessa dopo la ristrutturazione
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