L’attività dei carbonai localmente chiamati “carbunèr”, ormai scomparsa, in passato era molto estesa fra i boscaioli, grazie alla notevole disponibilità di materia prima nei nostri monti: la legna.
Il
carbone era il combustibile necessario all’alimentazione delle officine per la
lavorazione del ferro e del rame che si trovavano nelle valli delle Camerate e
delle Cartiere.
Il
procedimento per la realizzazione del carbone era lungo e faticoso. Dopo aver
tagliata la legna necessaria (faggio e carpino) il carbunèr lo accatasta sulla “gial”
(una piazzuola di circa sei metri di diametro precedentemente predisposta)
in modo del tutto particolare per formare il “poiàt” (catasta di legna). Nel mezzo della giàl è posto un cilindro e, intorno, sono disposti i rami più
lunghi legati quasi a forma di gabbia. Intorno sono ammucchiati i ceppi di
legna gli uni sugli altri, quelli più sottili a quelli più grossi. I più grossi
sono posti all’esterno, fino a raggiungere
un’altezza di 2-3 metri .
Sopra quest’enorme catasta di legna si mettono paglia e fieno marcio e, sopra
ancora, del terriccio, lasciando aperto solo lo sfogo superiore da dove il carbunèr appicca il fuoco. Poi la bocca
viene chiusa affinché all’interno non si sviluppino fiamme.
La
combustione deve essere lenta, ed in genere, dura una settimana. Di conseguenza
il carbunèr, spesso aiutato dai
membri della famiglia, si deve costruire un riparo nelle vicinanze per
controllare costantemente, giorno e notte, il poiàt, affinché non si sviluppi la fiamma. In questo malaugurato
caso, tutto il lavoro andrebbe disperso.
Quando
la catasta di legna è divenuta carbone, il carbunèr
toglie la terra che ricopre il poiàt
e attende che il carbone si raffreddi. Su 100 quintali di legna si ottiene la
quantità di carbone che oscilla dal 20 al 50%.
A
questo punto il lavoro è finito. Il carbone è posto nei sacchi per essere
trasportato nei luoghi di vendita.